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Il culto dei morti in Sardegna: riti di passaggio e pratiche funerarie perdute

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Il culto dei morti costituisce la più antica celebrazione rituale al mondo. In Sardegna, terra ancestrale e misteriosa in cui il rituale ha sempre regolato le varie fasi della vita, la morte ha sempre avuto un ruolo fondamentale nella vita sociale di ogni comunità, fin dalle epoche più remote. Vista come continuazione della vita in un’altra dimensione, la morte veniva celebrata con una serie di rituali di passaggio i quali, con la costante complicità della superstizione, erano destinati ad accompagnare il defunto dell’Aldilà.

Nelle tradizioni rituali funerarie sarde si è conservato un insieme di pratiche, gesti e codici che sembrano attingere dalle civiltà del passato, che da questa terra – la Sardegna – hanno preso ma anche lasciato tanto. Pratiche funerarie nuragiche e prenuragiche si mescolano con quelle puniche, romane, cristiane, creando un affascinante mix culturale che è giunto fino ai giorni nostri.

La morte e il passaggio

Fin dai primi istanti, la morte era accompagnata da un preciso codice fatto di gesti, grida e lamenti ripetuti, che prendeva il nome di “teu”. Il ruolo fondamentale era sempre giocato dalle donne, non a caso, in una società da sempre improntata su una cultura matriarcale. Sia che si trattasse di un marito, un fratello/a, un figlio/a, era la donna a “prendere le redini”. La parente più stretta (una madre, una moglie, una figlia o una sorella) accendeva una candela e con questa faceva il segno della croce di fronte al morto e gli chiudeva le palpebre e soprattutto le labbra, affinché non gli sfuggissero i segreti di famiglia.
Nelle primissime ore che seguivano il decesso, il cadavere veniva lavato, vestito e composto accanto al focolare domestico, disteso su un tavolo o talvolta su delle assi montate come un catafalco coperto da un lenzuolo. Sul petto veniva posto un piccolo crocifisso di legno. Riprendendo l’antica consuetudine romana, inoltre, il morto doveva essere disposto con i piedi rivolti verso la porta, in modo da facilitare il trapasso.

Antonio Ballero, “Sa ria”, 1908

Nelle ore successive, quando il feretro era ormai composto, seguivano le prime visite dei vicini di casa e dei parenti. Da questo momento iniziava la veglia funebre, che assumeva connotazioni e denominazioni diverse a seconda dell’area geografica. In alcune aree del Campidano la veglia è detta “sa bisita”, in altre ancora si parla di “krumpiu”, e infine nel nuorese si parla de “sa ria”.
Anche in questo caso il ruolo principale nel rituale era svolto dalle donne. Le parenti si sedevano ai lati del morto o si accovacciavano sul pavimento, attorno al focolare spento. Gli uomini, invece, prendevano posto in fondo alla stanza o in una stanza attigua, anch’essi in gruppo. La veglia poteva essere accompagnata da litanie funebri e da preghiere pronunciate ad alta voce oppure bisbigliate, ma talvolta era silenziosa. L’ingresso dei parenti nella stanza della veglia, ad ogni modo, non interrompeva il “requiem”, ed era accompagnata dall’atto di baciare il crocefisso sul petto del morto e, talvolta, seguiva le azioni di compianto: le donne restavano nella stanza accanto alle altre già presenti e gli uomini raggiungevano gli altri in fondo alla stanza o in una stanza attigua.

In segno di lutto era usanza da parte delle donne coprirsi la parte inferiore del viso con un lembo del loro fazzoletto da testa, tirato su fino a coprire il naso.

Il giorno del decesso le famiglie del vicinato avevano il dovere di mandare il pranzo alla famiglia del defunto. La porta di casa doveva rimanere rigorosamente aperta, nonostante freddo ed intemperie e la cena di veglia si consumava in silenzio, sempre accanto al focolare.

Al settimo e nono giorno dalla morte, era poi usanza da parte dei familiari del compianto distribuire ai vicini carne, pane e pasta (“maccarones”).

La sera, del nono giorno la famiglia del defunto si riuniva per un altro pasto. Anche questa usanza attinge a piene mani dal mondo romano della famosa coena novendialis.

Il ruolo delle prefiche

Esistevano, inoltre, delle apposite figure incaricate di provvedere al compianto funebre, le cui radici affondano anche in questo caso fin dall’epoca romana. Nel mondo romano la salma veniva accompagnata fino alla tomba attraverso una processione solenne a cui prendevano parte i familiari e le prefiche, il cui scopo era quello di pronunciare litanie e lamenti, rendendo il momento del compianto estremamente drammatico.

Prefiche su un frammento ceramico attico, 535–525 a.C. circa

Queste professioniste del pianto non erano molto diverse dalle nostre attittadoras, che durante i funerali avevano il compito di intonare lamenti funebri e lodi per il defunto, accompagnando il momento con una gestualità ritmica convulsa e agitata, talvolta graffiandosi il volto e strappandosi ciocche di capelli per accentuare il dolore. Questo lamento funebre, attidu (da cui il nome attittadoras), aveva lo scopo principale di enfatizzare la drammaticità del momento, in modo da placare l’ira del defunto. Tanto nell’antica Roma quanto in Sardegna si riteneva, infatti, che i defunti fossero un tantino permalosi e non avrebbero visto di buon grado un rito funebre senza pianti e lamenti.

Giuseppe Cominotti – Sas atitadoras di Tempio, da Atlante del Voyage en Sardaigne di Alberto Della Marmora

Roberta Carboni è una Guida turistica, da oltre 10 anni e Storica dell’arte, vive a Cagliari ed appassionata di Sardegna, che ama così tanto, da tutta la vita, ed è proprio per questo che ha scelto di raccontarla, attraverso tour tematici esclusivi. In questo modo, contribuisce a far conoscere l’isola non soltanto per chi ancora non la conosce, ma anche per gli stessi sardi. I tour si svolgono sia all’interno di Cagliari, quindi nel centro storico e in altre parti della città, che nei dintorni della stessa, spingendosi anche nel sud e centro della Sardegna.

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